Perduto è questo mare, nuovo romanzo di Elisabetta Rasy pubblicato da Rizzoli nel 2025, è un’opera che elude i generi – memoir, autobiografia, romanzo biografico – perché li attraversa tutti e nessuno, preferendo restare in quell’ambigua zona di confine dove il personale e il letterario, il vissuto e il ricordato, il detto e il taciuto si fondono. È una narrazione che si sottrae a ogni facile etichetta, così come l’autrice stessa si è sempre sottratta alle correnti dominanti della letteratura italiana.

Tre determine dominano il racconto: il padre biologico, Raffaele La Capria – maestro, amico, guida – e Napoli, la città che li tiene insieme come uno sfondo visivo e sensoriale che muta ma non scompare. Una città che non ha nulla di folkloristico, né di oleografico: è la Napoli perduta, quella in bianco e nero, devastata dalla guerra e mai più davvero risorta, quella che entrambi – padre e scrittore – hanno amato e fuggito. E al centro, come un punto fermo nella mutevolezza del tempo, la voce narrante di Rasy, che cuce e ricuce i frammenti della memoria come chi tenta un risarcimento impossibile.

Il libro prende avvio da una perdita: la morte di La Capria nel 2022. Da quell’evento, in apparenza esterno, si apre un movimento interiore che riconduce la narratrice al passato, a un altro lutto, più antico e mai davvero elaborato: quello del padre. Figura affascinante e sfuggente, Lello – ex aviatore, uomo bello e colto – si consuma negli anni in una malinconia opaca, quasi senza peso, fino a diventare un’ombra. “Nei fallimenti e nella solitudine” la sua bellezza si spegne, ma non l’eco che lascia nella figlia, che cerca nel racconto un modo per riavvicinarsi, o forse per separarsene definitivamente.

Eppure l’amore resta. Nonostante i silenzi, l’assenza, la trasformazione di un uomo che un tempo insegnava alla bambina la samba e la rumba e poi si rifugia nel sonno, nelle stanze buie di una Napoli decadente. Non è solo un padre reale ma un simbolo: dell’inadeguatezza, dell’abbandono, della ferita mai chiusa tra le generazioni. È un padre tra Anchise e Kafka, portato a spalle nel fuoco dei ricordi o interrogato con rabbia per ciò che non ha saputo essere. “Dormiva per dimenticare?”, si chiede la narratrice. “Oppure, come gli adolescenti che non riescono mai a lasciare il letto nei giorni che non devono andare a scuola, dormendo si preparava a un futuro più vicino al sogno che alla veglia?”.

In questa mancanza paterna si inserisce, con dolcezza e forza, la presenza di Raffaele La Capria. Un’amicizia durata oltre trent’anni, fatta di telefonate quotidiane, di confidenza assoluta e reticenza altrettanto assoluta. Nessuna sovrapposizione paterna – lo sottolinea Rasy – ma una comunione di sguardo e di vissuto. “Semmai un punto cavo in comune dove, come nelle favole, si nascondeva qualcosa di essenziale”. Figura elettiva, La Capria non è solo il grande scrittore di Ferito a morte o lo sceneggiatore de Le mani sulla città, ma l’uomo che ha saputo accogliere e comprendere la scrittrice, quando ancora non lo period. Con lui Rasy ha potuto parlare di Napoli, di letteratura, di vita, finalmente libera da ruoli e aspettative. Con lui ha costruito un’altra genealogia, non di sangue ma di affinità.

Il libro si muove come il mare del titolo: a onde, in moto perpetuo. A tratti la narrazione è pacata, immersa in ricordi che sembrano sedimentati; in altri momenti è irrequieta, spezzata da dolore, da assenze, da domande senza risposta. La sintassi asindetica, moderna, accelera il ritmo; il lessico, invece, resta elegante, quasi classico. Ne risulta uno stile che combina l’arte antica del dettaglio alla forza visiva del cinema. Il passato è rievocato in flash, a volte con la nitidezza di una fotografia, altre come un’eco distorta. Le scene al mare, il padre che insegna a nuotare, le amiche dell’adolescenza – Serena e Glauca – si alternano alla solitudine di una casa buia, alla vergogna di un uomo disfatto che dorme fino a pomeriggio inoltrato.

Tra le righe, emerge anche un altro tema: la condizione femminile in un’Italia che, tra anni Cinquanta e Sessanta, non offriva spazi di libertà alle donne non conformi. La madre di Rasy – “libera e battagliera” – si ribella all’immobilismo del marito, lo lascia, porta through la figlia. Ma è una libertà che ha un prezzo: quello di relazioni lacerate, di figli divisi, di padri trasformati in rovine. E per la figlia, il prezzo è la perdita della propria casa, la necessità di reinventarsi altrove, a Roma, in una nuova città, in una nuova vita. Una discesa agli inferi – come la definisce Rasy – che però period necessaria, “perché altrimenti il passato sarebbe inerte e la nostra vita non avrebbe molto senso”.

Il mare, allora, diventa metafora. Non solo del passato, ma del tempo stesso. Mare che restituisce e che cancella, che accarezza e che inghiotte. “Anche se nessuno mai ti accarezza, il mare ti accarezza”, scrive Rasy. Una carezza che lenisce, ma non risolve. Il titolo Perduto è questo mare suggerisce un’irreversibilità: ciò che è stato non tornerà. Non la Napoli dell’infanzia, non il padre vivo, non La Capria in vita. Eppure, proprio nel ricordo, questi elementi tornano a esistere. Lo fanno con una forza che non consola, ma rende più piena la coscienza di sé.

Centrale è anche la riflessione sulla scrittura come strumento di elaborazione. Rasy non scrive per fare ordine, ma per dare voce all’intricato. L’io narrante resta costante, guida sicura nel fluire disordinato della memoria. La struttura del libro è volutamente non lineare, quasi un collage di frammenti, come se fosse l’unico modo possibile per restituire la complessità dell’esperienza. Un viaggio nella “terra straniera del passato”, dove si cerca di dare forma a ciò che non è mai stato detto, a ciò che è rimasto sospeso.

Le determine maschili di questo libro non sono né eroi né colpevoli. Sono uomini segnati, imperfetti, vulnerabili. Il padre, il vero, è inchiodato alla sua impotenza; l’amico, il padre ideale, è guida discreta e silenziosa. Ma entrambi rappresentano – ognuno a modo suo – un legame profondo con la memoria e con la città di Napoli. Una città che non è quella di oggi, “un ininterrotto teatro della meraviglia”, ma una città “da cui tutti se ne andavano, un mare meraviglioso da cui tutti fuggivano, l’immagine perfetta delle illusioni perdute”.

Alla high-quality, Perduto è questo mare è anche la storia di una donna che diventa scrittrice. Un’identità costruita lontano dal proprio luogo d’origine, ma mai davvero separata da esso. Perché anche chi parte – come osserva la scrittrice – “non può scacciare l’concept insidiosa che la vera vita period lì, nel luogo che è stato abbandonato”. E forse proprio per questo bisogna tornarci, almeno con la scrittura, per chiudere un cerchio, per ridare voce a chi è rimasto in silenzio.

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