Cinquant’anni dopo la vittoria del Premio Pulitzer, Gary Snyder torna a far parlare di sé con la ripubblicazione di La pratica del selvatico, testo fondamentale che intreccia poesia, ecologia, spiritualità e critica sociale. Figura atipica della Beat Era – meno urbana, più contemplativa – Snyder propone un pensiero radicale ma non ideologico, che parte dall’intimità con la natura per approdare a una visione sistemica dell’esistenza.

La natura selvaggia non è soltanto la preservazione del mondo, – è il mondo.” In questa affermazione, apparentemente semplice, si cela la chiave di volta del libro: la natura non è qualcosa da proteggere come fosse separata da noi, è il tessuto stesso dell’essere, umano compreso. Parlare di “selvatico” non significa evocare territori remoti e incontaminati, ma piuttosto interrogarsi sulla possibilità di tornare a far parte di un’interezza che abbiamo abbandonato. Una reintegrazione che, lungi dall’essere regressiva, è anzi un atto evolutivo: ritrovare la propria appartenenza all’“Assemblea di Tutti gli Esseri”.

La pratica del selvatico è un’opera composita, che raccoglie saggi e riflessioni nate da esperienze personali – tra cui l’alpinismo e i lunghi soggiorni in Asia – ma anche da studi di ecologia profonda, dalla pratica del buddismo Zen e da una riflessione continua sul linguaggio e sulle strutture della civiltà occidentale. Snyder parla da poeta, ma anche da pensatore critico che non si sottrae alla complessità.

Il cuore del libro è un’esortazione a una trasformazione culturale che tocchi i fondamenti del vivere collettivo. Non basta l’attivismo ambientale o la denuncia politica: secondo Snyder, serve un nuovo patto con la Terra. Un “contratto naturale” globale che ci renda responsabili nei confronti dell’aria, delle acque, degli animali, delle foreste e persino delle montagne. L’obiettivo è ripensare le “risorse comuni” non come oggetti di sfruttamento, ma come Beni Comuni, il cui valore è intrinseco e non negoziabile.

Da qui nasce la proposta di una nuova civiltà che viva “in modo pieno e creativo insieme alla natura selvaggia”. Snyder invita a rifondare i criteri della prosperità e della sfida umana: non più dominare, possedere, accumulare, ma esplorare, contemplare, coltivare. La matematica, la meditazione, l’alpinismo, la poesia e perfino la magia sono, nel suo orizzonte, pratiche che ci permettono di essere autenticamente umani in un mondo che non ci appartiene, ma a cui apparteniamo.

Il “selvatico” di Snyder ha molte facce. È ciò che si trova oltre le recinzioni della società, ma anche ciò che vive dentro di noi, nelle profondità psichiche e nei territori dell’inconscio. In questo senso, le arti – dalla poesia alla musica – sono veri e propri parchi naturali della mente: spazi protetti dove l’immaginazione può esprimere la propria libertà originaria, contro l’addomesticamento culturale. Il linguaggio stesso, sostiene Snyder, ha un lato selvatico, un’origine istintiva e imprevedibile che lo lega agli altri esseri viventi più di quanto non faccia la razionalità tecnica.

A livello politico e geografico, l’autore propone un’thought affascinante: il concetto di “nazioni naturali”. Non confini stabiliti da trattati o guerre, ma territori definiti da elementi fisici – montagne, fiumi, pianure – e da un senso di appartenenza bioregionale. La consapevolezza ecologica non può prescindere dal luogo in cui si vive: solo conoscendo la flora, la fauna, i cicli stagionali e i ritmi del proprio ambiente si può sviluppare una relazione profonda con la Terra. Un equilibrio che deve tenere insieme pluralismo culturale e radicamento locale, cosmopolitismo e senso del luogo.

In questa prospettiva, vivere in modo etico significa soprattutto essere educati alla complessità del vivente. La peggiore delle immoralità, secondo Snyder, è il pensiero avido, l’atteggiamento predatorio che caratterizza gran parte della modernità. Un atteggiamento che si manifesta con particolare evidenza nell’industria della carne, emblema di una relazione distorta con gli animali e con il nutrimento. Il trattamento riservato agli altri esseri viventi è per Snyder una cartina tornasole della nostra salute spirituale: se disprezziamo la vita che ci circonda, finiamo per distruggere anche quella dentro di noi.

Quello che emerge, in definitiva, è una visione integrale dell’ecologia, che non si accontenta di soluzioni tecniche o di politiche correttive, ma propone una riflessione culturale e antropologica. Il messaggio è chiaro: è possibile (e necessario) abitare il mondo in modo diverso, con meno arroganza e più ascolto. Non si tratta di tornare indietro, ma di avanzare verso un modello di civiltà capace di coesistere con l’alterità del selvatico.

La pratica del selvatico stimola a porsi domande, risvegliare consapevolezze, offrire una grammatica per pensare altrimenti. A cinquant’anni dal Pulitzer, Snyder continua a parlare con la voce di chi ha camminato molto, ascoltato con attenzione e osservato il mondo senza mai dimenticare di farne parte.

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